Una persona perbene

Sabato pomeriggio di Gennaio, all’imbrunire. Suona il campanello, evento abbastanza raro in questa casa in cui abitiamo da meno di un anno. Rispondo al citofono, un poco titubante dato che non aspettiamo nessuno.  Una voce maschile mi ripete in italiano stentato: “Suzuki… Altea… Suzuki… tuo?”  Si capisce che è con ogni probabilità un immigrato, e rispondo piuttosto infastidito: “Non so… non mia… non so… Io no Suzuki… io Seat…”, ripeto imitando ridicolmente il suo italiano stentoreo.  Lui però insiste, io ripeto a mia volta, e riattacco.

Come accade troppo spesso, attivo il pensiero solo qualche secondo dopo l’azione, anzichè prima: ma cosa sto facendo? Io ho una Seat Altea, parcheggiata sul lato della carreggiata, proprio fuori dal cancelletto di casa, e probabilmente questo rompiscatole sta solo confondendo Seat con Suzuki… Che abbia fatto un incidente con la mia auto parcheggiata?! Infilo le scarpe ed esco subito in strada. Oltre il cancello, chiuso, mi aspetta un ragazzo, viso leggermente scuro, barba di qualche giorno, abiti semplici ed il cappuccio del giubbotto calato sulla testa  nonostante gli oltre dieci gradi di oggi. Ha l’aspetto di un pakistano, o giù di lì. Apro il bel cancelletto in ferro battuto: mi guarda sorridendo, indicando la mia auto parcheggiata a pochi metri come a chiedere conferma che sia la mia. Annuisco e… mi porge gentilmente le chiavi dell’auto. Della mia auto!

Mi spiega, più a segni che a parole, che le ha trovate sul marciapiede. Vedo una bicicletta appoggiata alla ringhiera, evidentemente il suo mezzo di trasporto. Spontaneamente mi sciolgo in un largo sorriso e… cosa posso fare? Lo ringazio iteratamente, gli stringo la mano, poi entrambe, con entrambe le mie, poi, non avendone altre, lo abbraccio. Sorride gentile. Gli dò una piccola mancia, quello che ho in tasca, è il minimo che posso fare così su due piedi. Ringrazia umilmente con qualche cenno del capo, inforca la bici e sparisce verso ovest nella statale ormai buia.

Sono felice, ma anche confuso, quasi scosso. Mi avvicino all’auto, ci giro intorno: tutto a posto. La apro, guardo dentro: tutto in ordine. Aveva le chiavi in mano: avrebbe potuto, se non rubarla, almeno cercarci dentro qualcosa da rubare, o solamente prendere qualcosa di utile, magari una giacca, un pacchetto di sigarette, qualcuno dai tanti CD sparsi sui sedili… Invece è tutto a posto. Lui forse, o probabilmente, non lo ha nemmeno pensato; io invece sì: certo, è il pensiero agito che conta, molto più del pensiero pensato, tuttavia mi sento invadere dalla imbarazzante sensazione che la mia  coscienza sia meno pulita della sua. Ci sono anche questi immigrati. Forse sono molti di più di quanti pensiamo. Sono silenziosi, non si fanno notare, e dopo avere fatto onestamente la loro parte scompaiono nel buio lasciandoci dietro ai nostri bei cancelli in ferro battuto. Le belle azioni, si sa, non fanno spettacolo.

Se non fossi ostinatamente agnostico e noiosamente privo di qualunque inclinazione al soprannaturale, penserei che questo episodio sia un segno degli Dei, un paterno avvertimento con cui il Gran Direttore mi voglia redarguire delle mie basse preoccupazioni di solo un’oretta prima, dei pensieri non propriamente intrisi di fiducia nel prossimo in cui è così facilmente prona ad adagiarsi anche una persona come me, cresciuta nella (falsa?) convinzione di vivere quotidianamente in coerenza con i più sani principi di rispetto, eguaglianza, giustizia sociale, fiducia nel prossimo; divenuta adulta nel ventre morbido ad autoconsolatorio delle varie correnti pacifiste, terzomondiste, libertarie, egalitare, che si dipanavano dal grande bacino di quel mondo internazionale e progessista che sembra ormai poco più di una illusoria parentesi nell’inesorabile e prosaico ripetersi della storia umana… Mondo vecchio sempre nuovo.  Avevo infatti parcheggiato l’auto, perdendone quindi le chiavi per disattenzione nell’atto di riporle in tasca, non più di mezzora prima, rientrando dopo una visita ad un appartamento in vendita in città. Trattandosi di una casa singola suddivisa in quattro appartamenti in cui abbiamo notato, negli spazi comuni, coesistere zone ben ordinate e pulite ed altre alquanto trascurate, mi è venuto naturale controllare i nomi sui campanelli, notando senza sorpresa che due dei quattro erano, con ogni probabilità, nomi arabi o magrebini, e mi sono quindi premurato, in completa naturalezza, di chiedere all’agente immobiliare qualche informazione riguardo agli inquilini degli altri appartamenti. Sottinteso, riguardo a quelli con i nomi strani

Rientrando in casa, dopo essermi chiuso alle spalle il bel cancelletto in ferro battuto,  mi è venuto spontaneo chiedermi se io avrei fatto altrettanto: mi sarei preso la briga, vista una chiave d’auto sul marciapiede, di suonare tutti i campanelli del cancello più vicino? E di perdere qualche minuto ad attendere una risposta? (Nella palazzina in cui abito, infatti, i campanelli sono oltre una decina, ma essendo il mio l’unico appartamento occupato anche in inverno, sono anche stato l’unico a rispondere). E persino di restarmene lì, fuori dal bel cancelletto chiuso in ferro battuto, in attesa di vedere cosa succede dopo che l’unica voce ad avere risposto ha chiuso la linea con tono scocciato? Probabilmente avrei appoggiato la chiave sul muretto di cinta e me ne sarei andato scocciato a mia volta. Ancor più probabilmente, non avrei nemmeno suonato alcun campanello, ma solo appoggiato la chiave sul muretto, giusto per renderla più visibile. Ci sono anche questi italiani… e forse non sono così pochi come pensiamo. Non sono usi preoccuparsi di quanto una loro piccola azione, che costerebbe pochissima fatica, potrebbe essere utile ed importante a qualcun altro. Preferiscono tirare dritto per la loro strada e chiudersi dietro ai bei cancelli in ferro battuto delle loro comode case, senza preoccuparsi troppo di ciò che accade a quegli altri lì fuori.

Ecco, forse, lunedì dovrei telefonare all’agente immobiliare per specificare che mi piacerebbe avere qualche informazione riguardo agli inquilini della casa, compresi quelli con i nomi normali

E nonostante sia ostinatamente agnostico e noiosamente privo di qualunque inclinazione al soprannaturale, una volta rientrato in casa non ho potuto evitare di soccombere ad una suggestione che, con velata mestizia, non saprei definire altro che senile, e che forse un uomo di qualche migliaio d’anni fa, un uomo con ogni probabilità genuinamente gnostico ed entusiasticamente partecipe dei disegni mitologici con cui interpretava il mondo,  avrebbe considerato saggia.

Appena svegliato, all’aurora, affacciandomi sul terrazzo, avevo infatti potuto assistere, come  molte altre volte, al sorgere del sole all’orizzonte, sopra il mare (in inverno, abbiamo più o meno gli stessi orari). La cui grassa palla, arancione carico come un bel tuorlo d’uovo di gallina di campagna, si era però subito nascosta nuovamente sopra alle nubi basse che coprivano fittamente il cielo. Alcuni raggi trasparivano obliquamente dalle fenditure delle nubi, tagliando il cielo come lame dorate tese verso destra e sinistra che andavano a infiggersi nella placida tavolozza blu del mare, sulla quale, come ogni mattina, qualche piccola imbarcazione, con le luci ancora accese, rientrava dalla pesca notturna.

“Ecco lo sguardo di Dio!”, pensai. E’ infatti assai comune trovare una simile rappresentazione in affreschi e dipinti della cultura cristiana, dove la luce che simboleggia Dio o lo Spirito Santo si stende benefica dall’alto dei cieli sulla terra e sull’uomo.  Certo, io interpretavo questo dolcissimo sbocciare del giorno sulla base della mia sovrastuttura culturale, quindi non potevo che associare quanto vedevo al significato comunemente attribuito alle immagini sacre viste moltissime volte. Ma, pensai, vi fu un tempo in cui i primi uomini, rientrando dalla pesca proprio allo stesso modo in cui facevano quelli sotto ai miei occhi, alzando lo sguardo, colsero sopra alle loro teste quello splendido disegno che io vedevo anche oggi, e, privi di qualunque sovrastuttura culturale ancor lungi dall’esistere, interpretarono le calde lame dorate che intiepidivano dolcemente la loro testa ed il mare da cui traevano sostentamento e vita, come lo sguardo, il respiro, la mano di qualcosa che poi sarebbe stata chiamata divinità. A seconda delle circostanze, uno sguardo amorevole oppure irato, un respiro tranquillizzante oppure greve, una mano morbida e carezzevole, oppura ruvida e rude: comunque sia presenti ad alleviare l’inqietudine della solitudine, l’angoscia dell’essere, e dell’esserlo soli. Proprio come la presenza di un genitore quieta il bambino.

Una volta rientrato in casa, assorto alla finestra e come sprofondato nel cupo blu notturno del mare e del cielo ora indistintamente fusi, ho ripensato all’alba, allo sguardo con cui gli occhi del sole mi avevano guardato, e da cui mi ero sentito guardato; ho sentito come ancora intrappolato nelle mie, il calore delle mani lunghe e affusolate che avevo stretto solo qualche minuto prima e, sedutomi nella poltrona, mi sono lasciato assopire dallo sciabordio dell’acqua che l’alito della brezza sospingeva ritmicamente a riva, con la consapevolezza confortante che l’indomani le lame dorate del cielo sarebbero ridiscese nuovamente a distinguere la luce dalla tenebra, ad intiepidire il mare e la terra. E mi sono sentito – od ho forse solo sognato di sentirmi – un uomo nuovo, nuovo come i primi uomini di migliaia d’anni fa… Mondo vecchio sempre nuovo.1

Mondo Vecchio sempre nuovo è il titolo dell’ultimo volume della trilogia Il mulino del Po’ di Riccardo Bacchelli, monumentale opera letteraria del novecento italiano. Si tende ahimè sempre più spesso a comunicare e pensare per immagini e citazioni, e m’è parso che questa, affiorata d’un tratto alla mia consapevolezza senza ch’io ne cercassi alcuna, sintetizzasse ottimamente quel senso di circolarità storica, quell’istintivo bisogno umano di riconoscere il mondo per qualcosa che già si conosce, che già è stato e quindi può ancora essere,  quella percezione che l’uomo sia in fondo – per natura – fondamentalmente conservatore (il che non significa affatto che sia di per sè cosa buona), che quella sera, mentre la mia mente si annacquava nel buio incipiente, mi abitavano con tanta ed inaspettata naturalità.

“Ecco lo sguardo di Dio!”