Reykjavik, 31 Gennaio 2022
Nata e cresciuta in una piccola città della Transilvania rumena, fin da piccola ho espresso una spiccata predilezione per le arti grafiche e plastiche, cui ho dato in qualche modo sfogo durante l’adolescenza, frequentando disordinatamente corsi di disegno, pittura e scultura presso la Scuola d’Arte di Zalau, e, soprattutto, quell’imprescindibile atelier di forme, colori, odori, sapori e suoni che era tutto il mondo intorno a me.
Il mondo, tutto: il grigio e stantio panorama della città, come quello iridescente e bucolico della campagna estiva. La città abbruttita, intristita dall’urbanizzazione del periodo sovietico: con i tubi gialli del gas che corrono ai lati delle strade; i palazzi dai tetti malformi, le patetiche tendine sintetiche di pizzo alle finestre senza imposte ed i balconi chiusi da esili e malferme verandine in plexigas che pretendono di alleviare la mesta claustrofobia quotidiana consentendo qualche metro quadro in più al coperto; le aiuole trascurate e la spazzatura fuori dai bidoni perchè è lì che gli zingari fanno la loro spesa quotidiana; i complessi industriali vetusti e l’acciaieria parzialmente dismessa proprio al di là della strada di fronte a casa, al cui ingresso da piccola tante volte cercavo disperatamente un padre che non voleva farsi trovare…
E la campagna: casa dei nonni, poco fuori città, dove trascorrevo i mesi estivi. Dove la zampa della modernità ancora non aveva graffiato così brutalmente sulle cose e sulle genti. Inoltrarsi con l’autobus dentro quelle stradine via via più desolate e vuote, avrei capito anni dopo, era proprio come scivolare turbinosamente dentro un quadro di Chagall: la nonna vestita di lana in tutte le stagioni, che, sì, qualche notte d’estate io credo d’averla vista ferma in cielo, lì sopra la casuzza di terra e davanti all’orticello, a vegliare sul nostro sonno e a parlare con Dio e le stelle; le papere, il fango, le vacche i porci il miele, gli attrezzi e gli uomini aridi; e i pesci pescati giocando a mani nude nel ruscello e le ranocchie nascoste nelle tasche di mio cugino per fargli dispetto; e tutto quel caleidoscopio di suoni e rumori incessanti, continui, e però mai disturbanti, che nella natura non ti fanno mai essere solo, anche quando credi di esserlo.
Non ho avuto un’infanzia nè una giovinezza facili. I mei genitori erano figli di contadini spostatisi in città a lavorare come operai in quella che allora era una delle maggiori acciaierie della zona. Ero la primogenita e le mie memorie di famiglia felice si limitano a sbiadite immagini che ricordo o forse solamente immagino di ricordare, di quando non avevo ancora cinque anni. Poi i ricordi, che a questo punto sono tali, mutano in una trama che non sfigurerebbe in un romanzo di Agota Kristoff. Altri colori, altri suoni. Il sibilo asciutto della cintura che fende l’aria e sbatte forte contro la schiena. Di qualcuno, nel chiuso delle nostre quattro mura. Poco importa di chi, che tutti si soffriva, ognuno a modo proprio, compreso chi le chinghiate le dava, ‘che mica le avrebbe date, altrimenti. Le feste, la baldoria dei grandi e i bambini eccitati nel mezzo e poi, così d’un tratto, il vermiglio degli schizzi di sangue sulla parete della cucina, le urla ubriache e il dente della zia che rotola sul pavimento. I miei si separarono presto ed il dopoguerra non fu di molto migliore della guerra. Un copione tutto sommato classico e diffuso ma non per questo meno doloroso: dopo la palpitazione, dopo l’eccitazione insana ed oscena delle violenze familiari alimentate da insoddisfazione, difficoltà comunicative, sciatteria e tanto alcol, il nitore della povertà fredda, introvertita, frigida di una donna sola con due figlie piccole da crescere.
L’era sovietica era terminata, l’89 passato da qualche anno, ma la nostra quotidianità era ancora quella stantia e un poco deprimente che troviamo nei libri di Milan Kundera o di Hrabal. Non c’erano soldi. Non c’era il riscaldamento. L’acqua per lavarsi si scaldava sul fornello e la gran parte delle sere la cena consisteva in qualche fetta di lardo e poco altro. Io non sognavo una vita diversa, però. Oh, no, io la pretendevo. Ho avuto sempre, dalla più tenerà età, una consapevolezza forte, inattaccabile che non era quella la mia condizione. Io volevo i pomodori a cena anche d’inverno, dopopranzo l’ananas e le banane (cibi allora costosi e fuori portata per noi). Volevo i vestiti eleganti delle signore benestanti. Volevo giocare a tennis. Ma non erano solo le pretese capricciose di una bambina difficile. Nella mia testa di bambina, quella materialità ricca che tanto desideravo si associava a quella categoria di persone che in qualche modo partecipano di una quotidianità in cui trovano posto un naturale senso del bello, un certo livello culturale, un’educazione e un modo di vivere dove l’estetica delle cose si stempera e confonde con l’estetica dello spirito; dove pensieri, idee e discorsi alti pervadono il quotidiano. In un qualche modo non mi sentivo appartenere al mondo povero della mia famiglia.
Certo, oggi per tutti noi occidentali mediamente benestanti è comune pensare che cultura, buone maniere, eleganza, modi educati o perchè no, anche raffinati, non siano necessariamente appannaggio esclusivo di una classe sociale benestante e ricca. Tuttavia è un dato di fatto incontrovertibile che povertà, ristrettezze economiche e basse condizioni materiali ne rendano molto più difficile l’accesso. E questo è tanto più vero in una società collettivamente povera e con un senso civico mediamente basso, come era quella rumena di allora. Nel mio orizzonte ancora piuttosto limitato vigeva dunque una visione alquanto classista della società in cui l’accesso al bello e alle cose “alte” era privilegio della classe benestante (che era in fondo l’effetivo stato di cose in occidente fino all’avvento del benessere globale nel ‘900). Le due cose andavano insieme.
Ero pur sempre una bambina (un poco capricciosa, sì), e mi convinsi che in qualche vita precedente dovevo essere vissuta in una famiglia nobile, in un castello. E me lo dovevo riprendere. Insieme, beninteso, a tutto quel mondo alto e bello, in senso massimamente lato, di cui il fato, non si sa bene perchè, mi aveva defraudata. Sono stata fortunata, perchè la natura (il fato, Dio, chiamatelo come volete) mi aveva concesso di vedere ben chiaro e da subito quella che lo psicoanalista americano Hillman chiama la “ghianda”, ovvero la propria naturale vocazione, quella naturale inclinazione che abbiamo dentro fin dalla nascita, quello che davvero vogliamo e sappiamo fare, e che quando facciamo ci sentiamo a nostro agio.
C’è chi la propria ghianda la scopre solo in parte, chi faticosamente; chi mai, offuscato dalle imcombenze quotidiane o dalle priorità imposte da un sistema sociale cui aderiamo nostro malgrado, spesso inconsciamente: una piovra da cui è molto difficile districarsi, di cui è difficile anche solo essere consapevoli. Così, pochi hanno la fortuna e la capacità di sviluppare la propria ghianda e farla crescere, permettendole di diventare la quercia in cui ogni ghianda può potenzialmente evolvere.
La mia ghianda era per me, innanzitutto, redimermi da quel mondo basso e non restare incastrata in una quotidianità povera, soprattutto in senso umano, culturale, emotivo, civico e, perchè no, spirituale.
Certamente la componente genetica contribuisce alla definizione della propria ghianda; e a sua volta la ghianda sposta la nostra attenzione ed il nostro focus su certe circostanze della nostra vita piuttosto che su altre. La vitalità viscerale di mio padre non era in fondo un disperato grido di desiderio, una volontà di essere ai piani superiori, di accedere ai giardini pensili dell’edificio sociale? Mio padre amava la compagnia, amava circondarsi di amici con cui fare festa e godere dello stare insieme. Nonostante la sua emotività debordasse in una impulsività ch non sapeva controllare, e sfociasse talvolta in sfoghi di gratuita cattiveria o violenza, sotto c’era un uomo buono. Troppo sotto, purtroppo. Ma egli era il mio mondo: il mio desiderio di vita si aggrappava a lui, nonostante tutto. Sebbene se ne fosse andato da un giorno all’altro, e nemmeno ci cercasse più, a me e mia sorella, io, testardamente, lo cercavo e non gli volevo male. Era il mio daimon (il fato, Dio, chiamatelo come volete…) che mi guidava ed istruiva; la mia ghianda che cercava disperatamente dell’acqua per crescere.
Fu la sorella di mio padre (sì, proprio quella del dente schizzato) che mi aiutò con qualche soldo e tanta fiducia a terminare il liceo, riuscendo anche ad infilare qui e lì, di nascosto da mia madre, qualche corso di arte con cui tentavo di affacciarmi alla finestra di un mondo un poco meno squallido di quello fatto di spese povere e fettine di lardo la sera. Non c’erano soldi nemmeno per il cibo, figuriamoci per i libri. L’università non era cosa per noi…Ma la mia ghianda? Mia zia mi aiutò per quel che poteva, e mi iscrissi alla facoltà di Economia di Cluj-Napoca, nonostante lo stupore di mia madre. Inutile dire che furono anni difficili e magri, letteralmente. Pressata dalla priorità di completare gli studi quanto prima e di rendermi indipendente da una famiglia che non mi poteva mantenere, le velleità artistiche passarono presto in secondo piano e non ci pensai più. La mia testa non ci pensava più. Il mio inconscio ovviamente sì, a modo suo: la mia pancia, lei, lo sapeva bene cosa mi piaceva e cosa no. Ma a quel tempo non la sapevo ancora ascoltare.
Dopo avere conseguito la laurea, l’esperienza lavorativa di pochi mesi presso un’azienda locale mi convinse definitivamente a fare le valigie e partire per l’estero per ampliare le mie prospettive, coltivare le mie capacità, alimentare le mie ambizioni. E, soprattutto, sbarcare il lunario.
Mi trasferii prima in Spagna, dove non combinai molto, ed in breve in Italia. Qui, nonostante alti e bassi e divergenze caratteriali significative, consolido un rapporto di coppia iniziato qualche tempo prima proprio durante la prima esprienza lavorativa in patria. Per qualche anno mi guadagno da vivere lavorando in una società di finanza agevolata, e mi assopisco nella placida vita di provincia del benestante Nord Italia lombardo veneto. Con il passare del tempo il lavoro iniziò a prendersi sempre più spazio nella mia vita, che tutto sommato procedeva senza troppe domande sotto l’ipnosi collettiva della settimana lavorativa, weekend di svago, e una ventina di giorni di ferie all’anno.
All’apice di questa routine, un evento inaspettato, e col senno di poi benefico, cambiò le carte in tavola. La società per cui lavoravo chiuse d’un tratto a causa di problemi legali e di corruzione e mi ritoravi a casa da un giorno all’altro. Fronteggiare d’un tratto giornate vuote e silenziose fu come uscire da un sogno ed entrare in un incubo. Il suono di un giorno infrasettimanale trascorso da soli dentro i muri di casa propria è così diverso da quello di un giorno festivo! Lo scalpiccio del postino, il chiacciericcio dei bambini che tornano da scuola, l’aspirapolvere della colf della palazzina di fronte null’altro facevano che rendere più evidente la mestizia di quel silenzio urbano e di quel tempo di cui non sapevo come riappropriarmi. Avevamo un pianoforte in salotto, ma non sapevo suonarlo. Suonare il piano era una di quelle cose che avrei tanto voluto fare da bambina. Ma non feci. Cosa avevo fatto tutto questo tempo? Cosa sapevo fare? Cosa non sapevo fare ma avrei voluto? Avevamo qualche bel quadro appeso alle pareti. Adesso avevo il tempo per farne uno anche io. Ma non sapevo come. Non sapevo come! Non avevo nemmeno i pennelli. Perchè? Mi arrabbiai della stessa rabbia che avevo da bambina e mi resi conto che era quello il momento di riprendermi tutto. Tutto. Di nuovo.
Iniziai a frequentare i corsi di disegno e pittura della zona, ed in breve diventai assidua frequentatrice degli studi di coloro che sono stati i mei maestri degli anni a venire: l’Atelier CreaArt di Cristina Treccani, Amos Vianelli, Gabriella Piardi, Michela Bogoni.
La mia ghianda non era morta, ma c’era mancato poco. Ripresi ad annaffiarla giorno dopo giorno, con cura e dedizione. Lentamente, come un uomo disidratato che deve riprende a bere un poco alla volta. Mi sono riavvicinata ad una dimensione fatta di emotività ed umanità, intuizione, interessi artistici. E curiosità per tutti i colori del mondo intorno a me, proprio come quando ero bambina.
Nutro una particolare predilezione per la tecnica del pastello su legno, per la quale ho scoperto una inaspettata propensione e familiarità. Lavoro inoltre a carboncino su legno e ad olio su legno o tela. I soggetti spaziano dalla riproduzione di fotografie, quadri o paesaggi naturali, alle creazioni personali.
Amo produrre piccole serie di opere accomunate più o meno strettamente dal tema o dal soggetto, spaziando da una affinità tematica di ampio respiro ad una ipnotica sequenza seriale di variazioni sul tema. Nascono così i pastelli che glorificano gli alimenti basilari della civiltà umana, rappresentati in una nostalgica atmosfera di intima naturalità contadina (il pane, la birra, il latte, i formaggi), oppure la sequenza dei misterici volti africani addobbati di sole foglie e frutta, che ci impongono di prendere atto della sostanziale congruità tra le due dimensioni apparentemente antitetiche dell’estetica e della spiritualità, a ricordarci che, oggi non meno di ieri, la forma è sostanza.
Nel frattempo anche mio marito, da sempre sensibile alla dicotomia tra pensiero mentale-razionale ed emozionale-intuitivo, iniziò a maturare e coscientizzare un crescente senso di irrealizzazione. Quando si prende consapevolezza di uno stato di cose a livello interiore, emotivo, oltrechè mentale e razionale, la nostra attenzione inconscia si attiva e diventiamo più ricettivi a situazioni, eventi, opportunità intorno a noi che possono avere una rilevanza con il nostro stato. Quattro anni fa, con un pò di coraggio e convinti che era il momento giusto di dare più ascolto alla nostra “pancia” che non alla nostra “testa”, abbiamo colto senza pensarci due volte una opportunità che ci ha portati in Islanda. Nel giro di un mese abbiamo svuotato casa e ci siamo sbarazzati di tre quarti delle cose che possedevamo conquistando un senso di rigenerazione e liberazione che ha stupito noi stessi per primi.
Ripartire quasi da zero nel profondo Nord ha contribuito a risolvere definitivamente la situazione di stallo aprendo prospettive e consapevolezze nuove. Ho sviluppato e approfondito interessi nell’ambito della terapia regressiva e di riprogrammazione mentale, che ora coltivo e nutro di pari passo al mio interesse per la pittura. Qui ho preso lezioni da Guðfinna Hjálmarsdóttir (Litir og Föndur, Reykjavik). Il peculiare paesaggio islandese offre grande ispirazione e scenari unici ed intriganti. Dalla finestra del nostro salotto posso vedere i tramonti di un arancione terso e carico stendersi lentissimamente come lunghissimi e leggeri lenzuoli sopra l’orizzonte basso di Reykjavik. E, se ne hanno voglia, gli dei imbastiscono una serata danzante di caleidoscopiche aurore sotto le lenzuola e sopra le nostre teste.
Un’ulteriore piroetta professionale ci porterà in Finlandia tra pochi mesi. Ma questa è una tela ancora tutta da dipingere…