Autore: Matteo Cavallaro
Helsinki, 18 Settembre 2022
Essere presenti (be present), qui e ora (be tuned). Oramai si tratta di un precetto così familiare, diffuso e sdoganato anche nella cultura occidentale, che molti non lo considerano nulla più di una delle tante pillole di saggezza di cui tutti sono consapevoli ma pochi prendono sul serio, un po’ come i proverbi. Una mela al giorno toglie il medico di torno, non fare domani ciò che puoi fare oggi, chi fa da sé fa per tre…: li conosciamo tutti ma in pochi abbiamo la volontà e la costanza di applicarli.
Esistono almeno tre livelli di interpretazione dell’essere presenti, dell’esserlo qui, e dell’esserlo ora: il primo più immediato e semplice, gli altri meno ovvi e più intriganti, ma tutti meritevoli di considerazione e validi strumenti per un approccio alla vita più consapevole e fruttuoso.
Il primo fa riferimento ad un principio di ragionevolezza e buon senso tutto sommato scontato ma non per questo banale, tantomeno nell’era digitale in cui l’accesso pressochè illimitato all’informazione e la facilità di comunicazione ci illudono vanamente di potere spaziare tra attività varie e diverse, senza abbassare la qualità dell’approccio, della conoscenza, in definitiva del nostro tempo e di noi stessi. Ci riferiamo, semplicemente, all’importanza del mantenere un adeguato livello di concentrazione, di focus, su ciò che si fa. Quando siamo impegnati in un lavoro, in un’attività, sia essa fisica o intellettuale, si dà il meglio di sé quando se ne è assorbiti e non distratti da altro che avviene intorno o da preoccupazioni di sorta. Allora si è come estraniati dal mondo e per un poco la preoccupazioni quotidiane stanno fuori dalla nostra mente. Questo stato di grazia è tipico dei bambini quando nel gioco mettono tutto sè stessi e quanto accade là fuori non li riguarda minimamente; o dell’artigiano e dell’artista assorbiti nell’esecuzione del proprio lavoro. Di solito accediamo a questo stato quando facciamo qualcosa che ci piace profondamente, che è nelle nostre corde, che sentiamo nostro. A me, per esempio, succedeva a scuola quando scrivevo un tema di italiano, una volta che avvessi afferrato l’idea, la frase, la parola giusta da cui partire: allora non mi fermavo più, e arrivavo alla fine delle tre ore canoniche stremato, con il polso dolente, ma sereno, forte e felice di me, dimentico del mondo ed appagato.
Quando si è presenti, ciò che si fa, lo si fa bene: si fa con qualità. Putroppo, per la maggior parte delle persone non è comune accedere a questo stato di grazia. Più spesso, la nostra mente è disturbata continuamente da altri pensieri, più o meno coscienti, agenti come una sorta di distrazione continua che impedisce di massimizzare la consapevolezza nell’azione, attività o pensiero in corso. Questo non solo abbassa la qualità di ciò che si sta facendo, ma non aiuta nemmeno a progredire, risolvere, o alzare la qualità di ciò che non si sta facendo e che mantiene disturbata la nostra mente. Insomma una doppia perdita. Qual è allora la soluzione? Dovremmo tutti cercare di fare il più possibile solo ciò che è nelle nostre corde? Chiaramente non è verosimile, o lo è solo per pochi fortunati. La scommessa è allora cercare di invertire l’ordine delle cose: impariamo delle tecniche che ci aiutino a mantenere la consapevolezza e la concentrazione in ciò che facciamo. Vedrete che allora ciò che si fa, a prescindere dal cosa sia, si fa meglio. E stanca di meno. E magari ce la caviamo in meno tempo, pure. E, addirittura, potrebbe anche finire con il piacerci un po’ di più, o quantomeno col pesarci di meno. Mantenere la mente ben concentrata sul ciò che si sta facendo è una risorsa potente in grado di diminuire lo stress e l’ansia della nostra vita quotidiana, di ottimizzare le nostre prestazioni ed in conclusione di farci vivere più sereni. Preoccuparsi per qualcosa in un momento in cui non si può fare assolutamente nulla per migliorarla, non solo non serve a risolvere la causa della preoccupazione, nè ad alleviare la preoccupazione stessa, ma è anche deleterio per ciò che si sta facendo in quel momento.
Questo è dunque il primo livello, tutto sommato molto pratico, di valorizzazione dell’essere presenti. Il secondo livello si riferisce allo stato di sintonia o divergenza tra le componenti fisica, mentale ed emozionale del nostro essere, ovvero allo stato di armonia o disarmonia delle tre parti costituenti la triade corpo-mente-spirito. La civiltà occidentale moderna ha dato largo spazio alle componenti fisica e mentale, lasciando in secondo piano o addirittura negando sia la terza componente (emozionale) che l’importanza della relazione tra le componenti. Dare più credito al pensiero logico e razionale (mente) e accantonare ciò che ci suggeriscono le emozioni è un abito storicamente diffuso nella nostra cultura, basti pensare, tanto per fare un esempio semplice, all’accezione negativa dell’espressione “è un bambino emotivo”. Daniel Goleman con il suo best seller Intelligenza Emotiva del lontano 1995 ha letteralmente rivoluzionato il panorama in questo senso, esplorando con rigore scientifico l’importanza della relazione tra le componenti emotive e razionali del pensiero e di una appropriata gestione delle emozioni. Questa capacità di gestione non è innata ma può essere appresa ed allenata con pratica, costanza e pazienza. Va da sé che per gestire le proprie emozioni, dobbiamo innanzitutto esserne consapevoli. Il corpo è sia il veicolo primario di espressione delle emozioni e del nostro inconscio (somatizzare un malessere psicologico ne è un tipico esempio), sia esso stesso uno strumento di influenza, gestione e controllo del nostro stato emotivo e mentale (come insegna il proverbio mens sana in corpore sano). Essere presenti significa allora essere presenti a sé stessi in tutte le proprie parti, significa essere consapevoli di tutte e tre le nostre componenti fisica, mentale ed emotiva, saperle ascoltare, imparare a capire cosa ci dicono e operare attivamente per disporle in comunicazione tra loro in modo armonioso.
Il terzo livello è più metafisico: possiamo, in un istante qualunque, essere nel passato? Evidentemente no. Possiamo essere nel futuro? Nemmeno. Sembrerebbe esistere solo il presente, poichè ogni istante trascorso è già passato: è stato, e non è più. Ed ogni istante futuro non è ancora iniziato: sarà, ma non è ancora. Del resto, il presente stesso è di per sè indefinibile: ogni istante, nel momento stesso in cui accade, scivola immediatamente nella categoria del passato e quindi smette di esistere. E poichè ogni istante può essere suddiviso in ulteriori istanti, e così all’infinito, la durata dell’istante presente diventa infinitesima, tendendo asintoticamente al nulla. Quindi anche il presente sembrerebbe non esistere. Simili paradossi e sofismi impegnano filosofi e scienziati fin dai tempi più antichi. La celebre metafora del film e della pellicola di Einstein ci viene in soccorso nel districarci da questo apparente punto morto. Il trascorrere degli eventi nel corso del tempo andrebbe interpretato come lo svolgersi di una bobina cinematografica in cui ogni fotogramma è un evento che accade in un istante di tempo: lo svolgersi costante della bobina che avviene durante la proiezione del film rappresenta quello che per noi è il trascorrere del tempo, ed il susseguirsi dei fotogrammi rappresenta il susseguirsi degli eventi negli istanti di tempo. Tuttavia, tutti i singoli fotogrammi (tutti gli eventi istantanei) coesistono immutabili nella bobina, a prescindere dal suo svolgimento (lo scorrere del tempo). Il concetto comune di tempo, e la sua unidirezionalità, appaiono quindi una forzatura, una interpretazione semplificata della realtà. O, da un’altra prospettiva, una limitazione del nostro linguaggio: che significa più o meno lo stesso, perchè, e questo è un fatto oggigiorno assodato, si pensa per le parole che si conoscono. La categoria del tempo non è idonea ad una interpretazione adegauta della realtà: tentando di usare il linguaggio e le categorie mentali di cui disponiamo, possiamo approssimare dicendo che non siamo passato o futuro, o presente, ma tutti e tre insieme, sempre (e potremmo anche aggiungere ovunque…). Avremmo bisogno di una coniugazione del verbo “essere” che prescinda da una caratterizzazione temporale. Tutto esiste, è esistito ed esisterà in ogni istante. In questo senso, dovremmo limitare l’asserzione be present be tuned ad un semplice be (now and always, here and everywhere).
Una lettura pragmatica e utile del secondo livello di interpretazione è che tutto è interconnesso, altro concetto ormai largamente sdoganato. Non solo in senso spaziale (il famoso effetto farfalla, secondo cui il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo), ma anche in senso temporale: ciò che siamo determina ciò che saremo; ciò che siamo stati determina ciò che siamo. Meglio: ciò che siamo oggi è già adesso ciò che saremo domani; ciò che siamo stati ieri era già allora ciò che siamo oggi. Il passato non si cancella con un colpo di spugna; il futuro non è una possibilità che potremo scegliere o meno indipendentemente dal passato: in qualche modo è tutto già presente nel calderone dell’esistere ed essere consapevolmente presenti in ogni istante significa quindi avere le redini dello stato delle cose a prescindere da una dimensione temporale che, in definitiva, possiamo considerare più immaginaria che reale.
Questo non significa che in qualche modo tutto è già definito e predestinato, in una sorta di universo statico in evoluzione solo apparente, ma al contrario che ciò che agiamo in ogni istante influenza e definisce anche tutti gli altri: siamo sempre e comunque noi i responsabili ultimi di ciò che accade nella nostra vita. Ogni nostra azione, anche la più apparentemente insignificante, ha delle conseguenze. Che è, poi, uno dei principi basilari nell’induismo e nel buddismo: possiamo semplificare all’estremo dicendo che il nostro destino (Karma) è il risultato delle nostre azioni (Dharma). Ne siamo noi gli artefici. Non qualcun altro. Essere presenti quindi, essere consapevoli, significa assumersi la responsabilità di essere i marinai della propria imbarcazione, anzichè lasciarsi in balìa della corrente: non possiamo decidere la direzione del vento, ma possiamo continuamente aggiustare la posizione delle vele in modo da perseguire al meglio la direzione prescelta. Essere mozzo, capitano o ammiraglio dipende da noi!
In conclusione, i tre livelli di interpretazione dell’essere presenti nel qui ed ora si possono riassumere in tre concetti: capacità di mantenere la consapevolezza e concentrazione sull’attività in corso minimizzando l’interferenza dei pensieri disturbanti e delle distrazioni; cognizione delle proprie componenti fisica, mentale ed emotiva e del loro stato di influenza reciproca; piena consapevolezza che il nostro destino è il risultato delle nostre azioni.
E’ facile capire questi concetti a livello mentale, ma non lo è interiorizzarli e padroneggarli con consapevolezza ed autonomia. Come in ogni arte, l’esercizio e un buon maestro sono elementi fondamentali. Il life and career coaching, la terapia di riprogrammazione e la terapia regressiva sono efficaci strumenti che possono aiutare a padroneggiare efficacemente ed in breve tempo le pratiche di consapevolezza e autodeterminazione descritte in questo articolo. L’enorme sviluppo della tecnologia di comunicazione dell’ultimo decennio permette pressochè a chiunque un facile accesso a tali strumenti: una possibilità che vale la pena cogliere!
Nota sull’autore: Matteo Cavallaro è un Dottore in Chimica che, accanto agli interessi scientifici affini alla propria professione, ha da sempre nutrito e coltivato una naturale propensione per l’ambito umanistico. Con un approccio “letterario” all’esistenza tenta di coniugare le sue due anime, l’una rigorosa, scientifica ed ordinata, l’altra artistica, estetica e metafisica. Pensa che la forma sia sostanza non solo dal punto di vista chimico-fisico ma anche da quello cognitivo; che il bello sia un valore per sè, e che alla base di una vita appagante stia la ricerca della qualità. Si sente a proprio agio quando scrive.